lunedì 2 aprile 2012


Il nodo delle specie aliene che fa capitolare gli ambientalisti

Si parla di loro solo quando se ne percepisce il danno economico (12 miliardi di euro l'anno solo in Europa, fonte Commissione Ue), ovvero quando la loro diffusione è ormai ai limiti dell'emergenza. Ma le specie “aliene”  sono qui già da un pezzo e a portarcele, nella stragrande maggioranza dei casi, siamo stati noi.

E' proprio la loro  “estraneità” a renderle inesorabilmente così pericolose. Nelle nostre poche aree verdi, ormai – soprattutto nella nostra martoriata Italia -  ridotte ad un colabrodo e aggredite da periferie sempre più invasive, non esistono le condizioni perché possano inserirsi in un ecosistema senza stravolgerlo. Scoiattoli “stranieri” e castorini grossi come maiali (nutrie) non hanno predatori naturali nel vecchio continente e la loro presenza finisce per ridurre all'osso e soppiantare per sempre altre specie autoctone, preziose per quella che oggi chiamano biodiversità.
Qualcuno obietterà che è sempre accaduto nella storia del pianeta che alcune specie estranee abbiano ad un certo punto colonizzato altre aree, determinando di conseguenza profonde trasformazioni negli anelli della catena alimentare, causando l'estinzione di piante e animali che lì vi erano da millenni. Del resto, si potrebbe aggiungere, anche l'uomo è una specie invasiva, visto che dalla sua origine in Africa alcuni milioni di anni fa, ha colonizzato man mano tutto il globo, causando irreparabili danni qua e là. Certamente sì. Ma è proprio la nostra ingombrante presenza a far cambiare le regole del gioco. Lo spazio delle foreste è così ridotto che se perdiamo una specie in un determinato posto, non abbiamo alcuna speranza che possa trovare condizioni favorevoli in altro luogo e ciò significa una sola cosa: perdita, appunto, di biodiversità. Da qui nasce lo spirito innescato dall'assemblea dell'Onu di pensare ad una strategia per invertire la marcia e comunque rallentare il ritmo della sparizione di specie. (Con la prospettiva, speriamo, di invertire poi il percorso del pernicioso fenomeno).
Oggi l'UE dice che gli “alieni” sono la prima minaccia per la biodiversità insieme alla perdita di ambienti naturali e che, quindi, occorre occuparsene al più presto. Chi ha orecchie per intendere capirà che finalmente il messaggio è rivolto anche e soprattutto a quelle barricate ambientaliste e animaliste che immancabilmente si alzano tutte le volte che sentono parlare di contenimenti e cacce selettive.
 Di fronte a questi soggetti, finalmente, si apre un bivio. Le più famose associazioni sedicenti ambientaliste dovranno decidere se schierarsi con il raziocinio scientifico o se continuare a far finta che è possibile proteggere tutto e tutti, senza un minimo di discernimento. Cambiare però vuol dire anche fare i conti con le proprie enormi contraddizioni e mettere a nudo quelle dei loro sostenitori, cittadini un po' distratti e sensibili, che chiudono gli occhi di fronte alle esigenze di gestione ma rispondono benissimo agli appelli di sensibilizzazione sulla protezione di questo o quell'animale in pericolo.
 Per la verità un esempio di questa conversione si è già visto con la derattizzazione sull'Isola di Montecristo, con Legambiente e Lipu che hanno dovuto riconoscere pubblicamente l'esistenza di categorie ben distinte tra animali di serie a (in questo caso la berta minore, migratore minacciato) e di serie d (insulsi ratti capaci di riprodursi a ritmo insostenibile). I topi non hanno lo stesso diritto di vita delle splendide e rare berte minori, perché sono troppi e di conseguenza costituiscono un problema. Erano anni che gli ambientalisti non arrivavano a dire tanto!

Chissà quanti fra loro parteciperanno alla consultazione web avviata dalla Commissione UE per coinvolgere i cittadini europei nel processo decisionale, rispetto alle azioni da intraprendere sulle specie invasive, dalle cui premesse si evince in maniera non certo velata, quella della necessità di una drastica e rapida riduzione (eliminazione) del numero degli esemplari. Unica e vera forza motore della strategia sulla biodiversità approvata lo scorso anno. Le soluzioni finora applicate si sono rivelate inefficienti, per questo l'Europa intende adottare un approccio sistematico basato su prevenzione, rilevamento precoce e rapida reazione. Ovvero il principio autoregolato della caccia di selezione, praticata in ogni luogo del mondo per tenere sotto controllo le popolazioni faunistiche.
Ma la situazione può volgere anche in senso contrario e radicalizzare le posizioni. Forse non è un caso che la Brambilla abbia tenuto a battesimo proprio ora la nascita di una (grande?) federazione animalista-ambientalista che, dalle premesse, sembra intenda accettare per partito preso (in maniera fideistica) i più vieti e insulsi dogmi animalisti. Chiudendo quindi la porta a qualsiasi recupero di raziocinio. E' questa la strada? Lo chiediamo a quei tanti ambientalisti iscritti alle associazioni che hanno aderito alla crociata brambilliana, che – se non sono cacciatori, ma qualcuno c'è – hanno almeno rispetto per i valori che il mondo della caccia rappresenta e stima per tanti cacciatori.

Nessun commento:

Posta un commento