lunedì 12 novembre 2012

un'articolo che parla di Simona Pelliccia nuova leva della caccia con i segugi...


NUOVA LINFA PER LA CACCIA


Fa piacere ogni tanto constatare che la caccia avrà un futuro. Anche da noi. La conferma, le conferme, ci arrivano dai non più pochi giovani che con passione e competenza si avvicinano a questo meraviglioso universo. E sorprende, che fra questi giovani, non pochi soggetti facciano parte del cosiddetto gentilsesso.

Abbiamo già avuto modo di apprezzare le conoscenze giuridiche (vedi link) di Simona Pelliccia, giovanissima segugista, allevatrice competente, cacciatrice entusiasta, soprattutto lepraiola convinta. Che riesce a conciliare la sua gioventù (classe 1991!) con lo studio (fa giurisprudenza alla Bocconi), l'allevamento e l'addestramento (ha dieci splendidi segugi italiani a pelo raso nero) e la caccia, che ha imparato ad amare fin da piccola grazie al padre. Lo possono verificare i suoi amici su Facebook, dove continuamente Simona pubblica foto delle sue giornate di caccia e dei suoi momenti più personali in compagnia dei suoi cani. "Mi ritengo una segugista prima che cacciatrice", confessa. Ma ama a tal punto la caccia, che ha deciso di orientarvi anche il suo futuro professionale. Spera infatti un giorno di potersi dedicare totalmente alla difesa legale della categoria dei cacciatori. "Sempre più - ci ha spiegato - oggetto di sterili critiche fondate evidentemente sull'ignoranza, da parte della politica e dell'opinione pubblica". Lei invece è convinta “che la caccia sia il risveglio di istinti ingiustamente sopiti, fondamentali per l'equilibrio umano ed ambientale. Il giusto raccordo tra tradizione millenaria ed un presente sempre più' instabile e svuotato della sua essenza ultima".Di fronte a tanta sintetica saggezza, ci è sembrato perciò doveroso proporre questo suo breve scritto sull'etica della caccia moderna, che ne conferma equilibrio, sensibilità e amore per un mondo, il nostro, che ha bisogno di nuova linfa, freschezza, entusiamo, schiettezza e semplicità.  “Mi è più volte capitato, con particolare frequenza in questi ultimi tempi, di ricevere domande riguardo alla motivazione che spinge alcune persone a perpetuare un'attività tanto antica quanto - a dir dei più - obsoleta ed oramai non indispensabile come la caccia. A chi taccia di crudeltà coloro che hanno il privilegio - o la sventura - di essere animati dall'ardente fiamma venatoria, ecco, a me è sembrato opportuno rispondere così....Vi è, nell'atto che pone fine alla vita della preda, nella sua essenzialità, nel suo esser forse l'ultimo dei pensieri del cacciatore coscienzioso, un aspetto di sacralità. E non parlo di sacralità in senso religioso. Parlo di una sacralità che si profila come rispetto profondo del senso dell'esistenza, che si perpetua nella sua essenza più immateriale, che continua a vivere nell'anima della persona che ha compiuto l'azione. L'aspetto più significativo di quella che definirei, appunto, “perpetuatio essentiae vitae” è, a mio modesto avviso, individuabile in questo, e cioè nel fatto di sottrarre la vita della preda a quel mero meccanismo di nascita e morte che nella generalità dei casi prescinde da qualsiasi elemento di arbitrarietà e, perché no, finalità. L'uomo moderno teme e demonizza la morte, dimentico del fatto che si tratta in realtà di un elemento inderogabile. La vita è anche morte, e viceversa.
Il cacciatore lascia la propria impronta concorrendo a ristabilire quell'equilibrio del ciclo naturale, la cui alterazione (o meglio, direi, volontaria violazione) ha prodotto e continuerà a produrre notevoli problematiche.
Mi riferisco in primis a quella questione che potrebbe essere denominata come “repressione degli istinti più ancestrali e conseguente snaturamento dell'essere umano”. Nell'inserirsi in quel ciclo di natura che per millenni ha retto il mondo, il vero cacciatore, che innegabilmente oggigiorno non ha più la necessità di svolgere l'attività venatoria per soddisfare il bisogno primario dell'alimentazione, lascia immutato - ed anzi concretizza - ora come duemila anni fa, quel recondito ossequio che lo lega all'agognato selvatico, ed indirettamente a se stesso. Riscoprendo così le proprie radici più autentiche”.

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