Ce la possiamo
fare
L’apertura
della caccia è alle nostre spalle, siamo in piena stagione venatoria. In questi
giorni migratoria e ungulati assumono particolare rilievo anche se non mancano i tenaci, come
chi scrive, che insieme ai loro cani cercano ancora qualche capo di stanziale,
soprattutto in aree dove la gestione ha ben funzionato. Le emozioni e la
passione di sempre però non possono far dimenticare ciò che è stato e ciò che
purtroppo ancora sarà. Non avveniva ormai da decenni, anche se qualche premessa
si era già avuta nella passata stagione, ma quest’anno sono stati i tribunali a
decidere, in corso d’opera, modalità, tempistica e specie cacciabili. Un
disastro per la caccia italiana e per la certezza di diritto di migliaia di
cacciatori. Un disastro iniziato all’inizio dell’estate in alcune regioni allorché
parti significative di interi calendari sono stati censurati dai TAR senza che questo producesse
valutazioni e decisioni che mettessero al riparo gli altri provvedimenti. Anzi,
demagogia e populismo hanno prodotto il resto. L’apertura fissata dalla legge
157 in alcune regioni non è stata possibile ed in altre ci sono stati
cacciatori che si sono ritrovati a poter cacciare solo corvidi e poco altro. D’altronde
c’erano da fare le tessere associative e l’operazione richiedeva il gioco al
massacro delle richieste impossibili, a chi la sparava più grossa, a chi sapeva
inveire meglio contro tutto e contro tutti, a chi preferiva confondersi tatticamente
nel gruppone. Legittima difesa, si dirà, per quella grande parte del mondo
venatorio incapace di guardare al futuro con gli occhi della responsabilità e
della coerenza. Quello che verrà non è dato sapere ma nel frattempo creiamo ad
arte feticci sui quali scaricare le responsabilità. Feticci sono da sempre
considerati gli ambientalisti che alcune colpe ce le hanno di certo
(manifestano una sensibilità culturale diversa che oggi velleitariamente
vorrebbero coagulare, non tutti per la verità, nell’angolo ideologico di una
società che a lor dire è sempre più propensa alla vocazione animalista) ma non
quelle principali dal quale tutto è scaturito: l’approvazione della legge
comunitaria e l’aver fatto saltare il successivo accordo tra i portatori
d’interesse al tavolo delle regioni. Ricordo bene quelle discussioni. Da una
parte quanti dicevano che era tempo di riconquistare il maltolto ai cacciatori
su tempi e specie cacciabili e dall’altra quanti, una minoranza ahimè anche se
qualificata, invitavano alla prudenza, alla ricerca della concertazione,
all’idea che una legge si può modificare ma senza salti nel buio. La legge
votata in parlamento non ha però prodotto coscienza critica e discernimento.
Anzi la sconfitta appena subita, le cui conseguenze sono ben visibili oggi, ne
ha prodotta un’altra ancora più grave: l’incapacità, per ragioni di poltrona e
di casta, di concludere, dopo che era stato scritto e di fatto condiviso,
l’accordo con agricoltori e ambientalisti al tavolo promosso dalla Conferenza delle
Regioni. In quel testo, che sarebbe stato sottoscritto anche dagli animalisti
con l’impegno a non produrre più ricorsi, c’erano specie e tempi di caccia, per
iniziativa di Legambiente e Coldiretti, superiori a quelli che ora i tribunali
impongono con le loro sforbiciate in ossequio al rispetto oltremodo rigoroso e
vincolante di leggi e direttive comunitarie. Ma tant’è! Meglio continuare a
mostrare muscoli atrofizzati e alimentare la bagarre e il conflitto dove gli
avversari della caccia, per fatto genetico e per sensibilità pubblica, riescono
a muoversi, come si è visto, con maggiore efficacia, riuscendo a manipolare,
con il beneplacito dell’informazione, le coscienze individuali e collettive
anziché discutere di merito. E allora per quanti sono incapaci di cambiare
rotta è spuntato, nei bar, nelle assemblee, nelle armerie, nei circoli, il
secondo feticcio: l’Ispra e le sue linee guida. La responsabilità è in capo a
quell’istituto e a quei ricercatori se ci troviamo in questa situazione, tuonano
i bracconieri delle tessere associative. Chiedono addirittura l’azzeramento
dell’Ispra od anche l’istituzione di enti regionali più disponibili a
rispondere “scientificamente” alle pressioni locali (oggi in qualche caso
favorevoli ma domani, a situazioni politiche diverse, ci troveremmo di fronte ad
un possibile ennesimo boomerang). La scienza non deve essere manipolata semmai
aiutata a fare meglio il suo mestiere. Per farlo c’è una sola ricetta: produrre
studi, fornire dati, promuovere ricerche. Insomma fatti e non chiacchiere
perché quelle diventano carte inutilizzabili nei tribunali e ci si presta a
figure barbine. C’è chi ci si ormai abituato anche a questo perché fare la
parte del comico tartassato dei Brutos è comunque remunerativo. Infine c’è un
terzo feticcio, l’Unione Europea rea di non assecondare le furbizie di alcune
regioni in materia di applicazione delle deroghe. Anziché prendersela con chi
ha massacrato la norma lasciandosi dirigere dalla piazza, la colpa dell’Unione
Europea serve a coprire le responsabilità di quanti, a cominciare da Lombardia
e Veneto, applicando illegalmente le norme europee hanno portato oggi a non
avere nemmeno la possibilità di prevedere il prelievo dello storno a tutela
delle produzioni agricole.
Intanto
i numeri dei cacciatori decrescono. Molti i fattori: anagrafico, economico,
culturale. Ma per non dargliela vinta non basta evocare il fantasma del nemico
ma mettere in campo un progetto diverso che fondi l’unità del mondo venatorio
(non tutti ma quelli seri e disponibili) su basi certe programmatiche
analizzando e riconoscendo errori e limiti della propria azione. A meno che non
si voglia proprio questo per giungere in via indolore al fallimento del sistema
pubblicistico e sociale della caccia italiana e adeguarsi a quell’Europa troppe
volte richiamata a sproposito i cui cardini fondamentali sono la mercificazione
della fauna e la privatizzazione dell’attività venatoria. Oppure, ancor peggio,
c’è chi pensa che l’unità dei cacciatori si possa fare per sfinimento degli
altri non più in grado di reggere un quadro organizzativo ed economico con
modeste risorse a disposizione.
Viene
di pensarla male perché non si intravede uno scatto d’orgoglio da parte di chi
ha la responsabilità nel mondo venatorio di tutelare valori, storia e cultura
della caccia italiana. In alcune regioni, come in toscana, addirittura si
vorrebbe perseguire l’operazione di voler isolare quanti hanno mantenuto ferma
la barra riformatrice o denigrare quanti, come in Piemonte, avevano a suo tempo
espresso preoccupazioni per operazioni legislative non certo cristalline.
In
questo quadro ci si aspetterebbe maggiore vitalità da parte degli
amministratori e della politica. Ne avrebbero bisogno anche loro per recuperare
almeno su questi temi quel distacco con i cittadini che si sta cronicizzando.
Invece si aspettano gli eventi magari per prendere atto dell’ennesima sentenza
della corte costituzionale con la quale ribadirà che i calendari venatori
devono essere approvati con atto amministrativo anziché pubblicati con legge.
Così l’assessore di turno potrà dire, mentre distraggono i soldi delle tasse
che pagano i cacciatori per altre finalità anziché ristornarli agli Atc per le
attività di gestione, che a questo punto non dipende più da lui da scelte superiori.
Dura lex, sed lex!
Eppure
spalancare le finestre e far entrare aria fresca è ancora possibile. Il mondo
venatorio ha superato momenti più duri e quando ha messo in campo le idee ed è
entrato in sintonia con la società è risultato vincente. Il mondo venatorio di
Fermariello e Rosini, dell’Unavi ancorata ad un progetto riuscì in questo
rintuzzando colpo su colpo la sfida referendaria e producendo la migliore
legislazione del mondo in materia. Se c’è una cosa del passato che va ripresa è
la forza e il coraggio che allora quel gruppo dirigente seppe interpretare con
proposte che risultarono condivise nel Paese e nel Parlamento. C’è bisogno del
risorgimento della caccia e c’è bisogno di chiudere a chiave gli scheletri
negli armadi perché mai più possano uscire. La caccia è un bene comune per
l’Italia che guarda al domani: nella caccia c’è gestione, bellezza, vita, qualità
della vita. Possibile non ci si accorga di tutto questo e si lasci la materia
in mano a improbabili fondamentalisti, sia che annuncino una prospettiva di
carote e cetrioli e sia che rivendichino carnieri ricchi e fantasiosi.
Ce
la possiamo fare, ci sono ancora possibilità. Se così non la pensano coloro che
stanno nelle stanze alte, la spinta può venire da quel territorio che è la
dorsale di un Paese che non vuole cedere alla crisi e al destino cinico e baro.
Forza, incamminiamoci sulla strada della consapevolezza e della maturità. Il
domani si può ancora afferrare. Non solo per noi ma per i nostri figli che
potranno sentire negli odori di un bosco o di una laguna il filo di un
ragionamento che parte con l’uomo e finirà con l’uomo.
Marco Ciarafoni
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