sabato 20 ottobre 2012

RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO...L'Editoriale di Caccia+ novembre/dicembre 2012 a firma di Marco Ciarafoni




Ce la possiamo fare

L’apertura della caccia è alle nostre spalle, siamo in piena stagione venatoria. In questi giorni migratoria e ungulati assumono particolare  rilievo anche se non mancano i tenaci, come chi scrive, che insieme ai loro cani cercano ancora qualche capo di stanziale, soprattutto in aree dove la gestione ha ben funzionato. Le emozioni e la passione di sempre però non possono far dimenticare ciò che è stato e ciò che purtroppo ancora sarà. Non avveniva ormai da decenni, anche se qualche premessa si era già avuta nella passata stagione, ma quest’anno sono stati i tribunali a decidere, in corso d’opera, modalità, tempistica e specie cacciabili. Un disastro per la caccia italiana e per la certezza di diritto di migliaia di cacciatori. Un disastro iniziato all’inizio dell’estate in alcune regioni allorché parti significative di interi calendari sono stati  censurati dai TAR senza che questo producesse valutazioni e decisioni che mettessero al riparo gli altri provvedimenti. Anzi, demagogia e populismo hanno prodotto il resto. L’apertura fissata dalla legge 157 in alcune regioni non è stata possibile ed in altre ci sono stati cacciatori che si sono ritrovati a poter cacciare solo corvidi e poco altro. D’altronde c’erano da fare le tessere associative e l’operazione richiedeva il gioco al massacro delle richieste impossibili, a chi la sparava più grossa, a chi sapeva inveire meglio contro tutto e contro tutti, a chi preferiva confondersi tatticamente nel gruppone. Legittima difesa, si dirà, per quella grande parte del mondo venatorio incapace di guardare al futuro con gli occhi della responsabilità e della coerenza. Quello che verrà non è dato sapere ma nel frattempo creiamo ad arte feticci sui quali scaricare le responsabilità. Feticci sono da sempre considerati gli ambientalisti che alcune colpe ce le hanno di certo (manifestano una sensibilità culturale diversa che oggi velleitariamente vorrebbero coagulare, non tutti per la verità, nell’angolo ideologico di una società che a lor dire è sempre più propensa alla vocazione animalista) ma non quelle principali dal quale tutto è scaturito: l’approvazione della legge comunitaria e l’aver fatto saltare il successivo accordo tra i portatori d’interesse al tavolo delle regioni. Ricordo bene quelle discussioni. Da una parte quanti dicevano che era tempo di riconquistare il maltolto ai cacciatori su tempi e specie cacciabili e dall’altra quanti, una minoranza ahimè anche se qualificata, invitavano alla prudenza, alla ricerca della concertazione, all’idea che una legge si può modificare ma senza salti nel buio. La legge votata in parlamento non ha però prodotto coscienza critica e discernimento. Anzi la sconfitta appena subita, le cui conseguenze sono ben visibili oggi, ne ha prodotta un’altra ancora più grave: l’incapacità, per ragioni di poltrona e di casta, di concludere, dopo che era stato scritto e di fatto condiviso, l’accordo con agricoltori e ambientalisti al tavolo promosso dalla Conferenza delle Regioni. In quel testo, che sarebbe stato sottoscritto anche dagli animalisti con l’impegno a non produrre più ricorsi, c’erano specie e tempi di caccia, per iniziativa di Legambiente e Coldiretti, superiori a quelli che ora i tribunali impongono con le loro sforbiciate in ossequio al rispetto oltremodo rigoroso e vincolante di leggi e direttive comunitarie. Ma tant’è! Meglio continuare a mostrare muscoli atrofizzati e alimentare la bagarre e il conflitto dove gli avversari della caccia, per fatto genetico e per sensibilità pubblica, riescono a muoversi, come si è visto, con maggiore efficacia, riuscendo a manipolare, con il beneplacito dell’informazione, le coscienze individuali e collettive anziché discutere di merito. E allora per quanti sono incapaci di cambiare rotta è spuntato, nei bar, nelle assemblee, nelle armerie, nei circoli, il secondo feticcio: l’Ispra e le sue linee guida. La responsabilità è in capo a quell’istituto e a quei ricercatori se ci troviamo in questa situazione, tuonano i bracconieri delle tessere associative. Chiedono addirittura l’azzeramento dell’Ispra od anche l’istituzione di enti regionali più disponibili a rispondere “scientificamente” alle pressioni locali (oggi in qualche caso favorevoli ma domani, a situazioni politiche diverse, ci troveremmo di fronte ad un possibile ennesimo boomerang). La scienza non deve essere manipolata semmai aiutata a fare meglio il suo mestiere. Per farlo c’è una sola ricetta: produrre studi, fornire dati, promuovere ricerche. Insomma fatti e non chiacchiere perché quelle diventano carte inutilizzabili nei tribunali e ci si presta a figure barbine. C’è chi ci si ormai abituato anche a questo perché fare la parte del comico tartassato dei Brutos è comunque remunerativo. Infine c’è un terzo feticcio, l’Unione Europea rea di non assecondare le furbizie di alcune regioni in materia di applicazione delle deroghe. Anziché prendersela con chi ha massacrato la norma lasciandosi dirigere dalla piazza, la colpa dell’Unione Europea serve a coprire le responsabilità di quanti, a cominciare da Lombardia e Veneto, applicando illegalmente le norme europee hanno portato oggi a non avere nemmeno la possibilità di prevedere il prelievo dello storno a tutela delle produzioni agricole.
Intanto i numeri dei cacciatori decrescono. Molti i fattori: anagrafico, economico, culturale. Ma per non dargliela vinta non basta evocare il fantasma del nemico ma mettere in campo un progetto diverso che fondi l’unità del mondo venatorio (non tutti ma quelli seri e disponibili) su basi certe programmatiche analizzando e riconoscendo errori e limiti della propria azione. A meno che non si voglia proprio questo per giungere in via indolore al fallimento del sistema pubblicistico e sociale della caccia italiana e adeguarsi a quell’Europa troppe volte richiamata a sproposito i cui cardini fondamentali sono la mercificazione della fauna e la privatizzazione dell’attività venatoria. Oppure, ancor peggio, c’è chi pensa che l’unità dei cacciatori si possa fare per sfinimento degli altri non più in grado di reggere un quadro organizzativo ed economico con modeste risorse a disposizione.
Viene di pensarla male perché non si intravede uno scatto d’orgoglio da parte di chi ha la responsabilità nel mondo venatorio di tutelare valori, storia e cultura della caccia italiana. In alcune regioni, come in toscana, addirittura si vorrebbe perseguire l’operazione di voler isolare quanti hanno mantenuto ferma la barra riformatrice o denigrare quanti, come in Piemonte, avevano a suo tempo espresso preoccupazioni per operazioni legislative non certo cristalline.
In questo quadro ci si aspetterebbe maggiore vitalità da parte degli amministratori e della politica. Ne avrebbero bisogno anche loro per recuperare almeno su questi temi quel distacco con i cittadini che si sta cronicizzando. Invece si aspettano gli eventi magari per prendere atto dell’ennesima sentenza della corte costituzionale con la quale ribadirà che i calendari venatori devono essere approvati con atto amministrativo anziché pubblicati con legge. Così l’assessore di turno potrà dire, mentre distraggono i soldi delle tasse che pagano i cacciatori per altre finalità anziché ristornarli agli Atc per le attività di gestione, che a questo punto non dipende più da lui da scelte superiori. Dura lex, sed lex!
Eppure spalancare le finestre e far entrare aria fresca è ancora possibile. Il mondo venatorio ha superato momenti più duri e quando ha messo in campo le idee ed è entrato in sintonia con la società è risultato vincente. Il mondo venatorio di Fermariello e Rosini, dell’Unavi ancorata ad un progetto riuscì in questo rintuzzando colpo su colpo la sfida referendaria e producendo la migliore legislazione del mondo in materia. Se c’è una cosa del passato che va ripresa è la forza e il coraggio che allora quel gruppo dirigente seppe interpretare con proposte che risultarono condivise nel Paese e nel Parlamento. C’è bisogno del risorgimento della caccia e c’è bisogno di chiudere a chiave gli scheletri negli armadi perché mai più possano uscire. La caccia è un bene comune per l’Italia che guarda al domani: nella caccia c’è gestione, bellezza, vita, qualità della vita. Possibile non ci si accorga di tutto questo e si lasci la materia in mano a improbabili fondamentalisti, sia che annuncino una prospettiva di carote e cetrioli e sia che rivendichino carnieri ricchi e fantasiosi.
Ce la possiamo fare, ci sono ancora possibilità. Se così non la pensano coloro che stanno nelle stanze alte, la spinta può venire da quel territorio che è la dorsale di un Paese che non vuole cedere alla crisi e al destino cinico e baro. Forza, incamminiamoci sulla strada della consapevolezza e della maturità. Il domani si può ancora afferrare. Non solo per noi ma per i nostri figli che potranno sentire negli odori di un bosco o di una laguna il filo di un ragionamento che parte con l’uomo e finirà con l’uomo.

Marco Ciarafoni

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